Intervento del Presidente di Felicita, Alessandro Azzoni, al convegno SPI “RSA – Conoscerle per rinnovarle” del 15/03/2021
Durante questo lungo anno in cui si è consumata la tragedia che ha toccato in modo cosi duro gli anziani, per noi familiari di un genitore o di un nonno ricoverato nelle RSA molte cose sono cambiate: siamo precipitati in un tunnel di dolore per i morti, di angoscia per i sopravvissuti che sono rimasti isolati, di preoccupazione per la lontananza e l’assenza di notizie, di rabbia e impotenza di fronte al muro delle istituzioni, di sensi di colpa per una scelta magari obbligata ma presa nella certezza che fosse garantita la protezione del nostro parente.
E insieme a questo, il cambiamento ha portato anche la maggior conoscenza di un mondo complesso che fino ad allora ci appariva scontato e naturale. Abbiamo imparato – dalle analisi degli esperti, dalle inchieste dei media e da ricerche approfondite come questa – a capire i motivi che legano il funzionamento delle RSA, la loro organizzazione e i criteri che ne regolano le scelte con un modello socio-sanitario debole e irrisolto, poco legato ai bisogni delle persone sul territorio.
E ci sembra che l’esperienza tragica di quest’anno stia iniziando a cambiare – grazie anche agli interventi del mondo cattolico – il pensiero comune su quella cultura utilitaristica che considera la fragilità della vecchiaia qualcosa di marginale da nascondere, una sorta di destino negativo inevitabile da allontanare allo sguardo.
Della necessità di cambiare il modello delle RSA, da oltre trent’anni considerate la soluzione più efficiente alla perdita di autonomia degli anziani, sono in molti oggi a parlare.
Ma quello che invece non ci sembra cambiata è la volontà di revisione dei propri criteri gestionali nel mondo RSA, che anzi si è rinchiuso in una trincea difensiva dove la logica dell’autoprotezione (dai rischi legali, dal calo dell’utenza e quindi dei profitti, dalle necessità di riorganizzare i servizi) prevale sull’urgenza di mettere i bisogni degli utenti al centro, salvaguardando i diritti alla cura e a una vita dignitosa degli anziani.
Parliamo in generale, soprattutto delle grandi RSA proprietà di gruppi finanziari, ben sapendo che ci sono casi di buona volontà sparsi sul territorio. osservando come le diverse R.S.A hanno gestito l’emergenza pandemia ci siamo trovati di fronte a differenti realtà: quelle con una cultura aziendale attenta al benessere organizzativo, dove un management più sensibile ha saputo gestire meglio la situazione ponendo attenzione alla cura senza perdere il senso dell’umanità, e altre strutture pervase da processi di vera e propria disumanizzazione che hanno coinvolto ospiti, lavoratori e parenti. Ed è proprio qui che si segnano i confini e le differenze tra luoghi di cura e organismi produttivi finalizzati a un profitto costruito sullo sfruttamento dei lavoratori oltre che sulla sofferenza di chi invecchia e delle famiglie.
Ci appare tuttavia evidente che la pandemia, con i suoi esiti terribili, anziché occasione di riflessione critica, è diventata spesso alibi per difendere gli interessi economici della categoria, alzando un muro nei confronti dell’esterno.
E questo muro difensivo sta danneggiando proprio l’immagine delle RSA stesse, spingendo molti a chiedersi fino a dove può arrivare un modello di assistenza che pretende di tutelare le persone più fragili come gli anziani e i disabili non-autosufficienti, rinchiudendoli e isolandoli, sacrificandone la libertà e la dignità di essere umani.
A chiedersi, insomma, se può funzionare un modello dove si lascia ai gestori delle strutture facoltà di decidere sulla loro vita.
E qui veniamo al tema, a nostro parere centrale, quello dell’apertura e della trasparenza di una struttura che fornisce servizi a persone fragili.
Il confine sottile tra l’essere un “contenitore protettivo” e contemporaneamente un “luogo di cura e assistenza aperto” ha portato molte strutture residenziali, a partire dalla prima ondata del Covid, a seguire la strada piú facile: quella di ritenere giustificata una gestione autarchica e impermeabile all’esterno.
A distanza di un anno, nonostante le vaccinazioni agli ospiti e al personale, nonostante le misure di
sicurezza e i tamponi obbligatori per le visite, nulla è cambiato: gli anziani sono tuttora isolati e subiscono gravi danni psicofisici, molti si lasciano andare, perdono l’autonomia, peggiorano le facoltà cognitive. Nonostante questo, tra il rischio possibile di contagio e il danno certo dell’isolamento si preferisce seguire la strada della chiusura.
Il ghetto non è soltanto un luogo circondato da mura invalicabili, è anche il luogo dell’indifferenza, del disinteresse e dell’abbandono. La qualità della vita – la vita stessa – non può esistere in un ghetto, e la ghettizzazione delle RSA è oggi la prima causa di malessere degli ospiti.
Recente è il caso della Presidente di un’associazione che raggruppa le istituzioni per l’assistenza del Trentino, sfiduciata dal suo CdA per aver deciso la riapertura delle RSA dopo il lungo lockdown che, recludendo gli anziani, ha creato altrettanti danni del contagio stesso.
Una strada di isolamento I cui danni non incidono solo sul soggetto direttamente colpito, ma anche sugli stessi familiari care-givers che rappresentano il canale privilegiato, spesso l’unico, di rapporto con il mondo esterno.
Il paziente senza famiglia è un paziente indifeso, perché una famiglia attiva alle spalle rende l’ammalato più forte e protetto di fronte alle violenze implicite in un’istituzione totale.
I parenti, che fino a un attimo prima costituivano una presenza quotidiana utile nella struttura, anche supplendo alle carenze dei servizi di assistenza e alla difficoltà di conoscere e comprendere l’anziano nei suoi bisogni, sono invece diventati per le RSA quasi un nemico, fonte di possibili contagi ma soprattutto di controllo e di potenziale minaccia.
Su questo tema, la nostra associazione ha raccolto le testimonianze dei parenti su quanto avveniva a livello nazionale nelle RSA e redatto il Libro bianco sulla normalità negata nelle Rsa ‘Anziani senza famiglia’ che abbiamo consegnato al Presidente della Commissione istituita dal Ministero della Salute, Monsignor Paglia.
Si ha l’impressione che anziché considerare come indicatore di buona assistenza l’alleanza terapeutica tra residente, famiglia e operatori, le istituzioni abbiano legittimato l’autarchia gestionale delle RSA rispetto ai controlli esterni.
Il legame tra apertura e trasparenza, tra controllo esterno e qualità del servizio ci pare invece una variabile fondamentale. Per questo andrebbe reso obbligatoria in ogni Rsa l’istituzione di un Osservatorio costituito da rappresentanti dei familiari, esperti e operatori, al di fuori degli organismi interni alla struttura, che potrebbe svolgere un ruolo consultivo e propositivo sugli interventi tecnici e migliorativi sia sulle problematiche di carattere generale che sull’organizzazione dei servizi.
Un punto di riferimento elettivo indipendente, dove i familiari e gli operatori si riconoscono nella funzione di rappresentanza degli interessi comuni e di controllo sul rispetto di diritti e doveri delle parti.
Per concludere, non c’è cura né assistenza che non passi dal riconoscimento dell’anziano come individuo portatore di bisogni e di diritti, e dal rispetto della sua dignità di essere umano.
Nelle scelte da compiere va dunque modificato il paradigma che vede gli interventi rivolti agli anziani centrati solo sul trattamento della malattia, in direzione di un’idea di cura che tenga conto dei bisogni globali della persona.
Cruciale, nel futuro delle strutture per anziani sarà quindi la conciliazione protezione e conservazione della qualità di vita, secondo criteri di cautela nel buonsenso, ma anche nel ‘buon cuore’, con uno sguardo di empatia e di pietas. Perché la sorte degli anziani è il nostro stesso destino, come individui e come società.